Diritti
6 aprile 2011
16:18

Santa Maria a Morello (Fi): Lampedusa è lontana

SESTO FIORENTINO (Fi) - Lampedusa è lontana. Non sono passate nemmeno 48 ore dal loro arrivo sulle colline fiorentine, in questa piccola canonica sotto il monte Morello fra muri a secco e olivi, che l'energia dei vent'anni ha già spazzato via quasi del tutto la disperazione delle prime ore seguite al loro fortunoso sbarco. Ne parlano, certo, ma non indugiano più di tanto sui ricordi Ahmed, Khaled, Abdul e tutti gli altri giovanissimi ospiti della casa vacanze, annessa alla parrocchia di Santa Maria a Morello.

 

 

Il futuro è qui. Non sono disperati, questi ragazzi. Hanno avuto freddo, fame, paura. Hanno affrontato una traversata senza certezze di arrivare vivi dall'altra parte del mare. Hanno scommesso e hanno vinto. Proiettati come sono completamente nel futuro, un futuro che molti immaginano già in Italia e, perchè no, anche in Toscana, un posto di cui a stento conoscevano il nome, dove il caso li ha portati e che ora stanno già cominciando ad apprezzare. Un futuro che sintetizzano in tre parole: travail, papier, mariage, ripetute ossessivamente, in arabo e poi in francese, l'unica lingua con la quale, sia pure in modo frammentario, si riesce a comunicare.

 

Lavoro, permesso, famiglia. Sono questi gli ingredienti della nuova vita, che immaginano a partire da adesso. Hanno vent'anni. Altro, per ora, non vogliono sapere. "L'unica cosa che mi interessa - dice Ahmed - è lavorare....è per questo che sono venuto. A Kaurean facevo il cameriere, ma lavoravo solo un mese sì e tre no. Qui voglio provare a cercare nei ristoranti e nei bar. Mi hanno detto che a Firenze e in Toscana ce ne sono molti, perchè ci sono i turisti. Certo, vorrei fare il cameriere. Ma posso fare qualsiasi cosa. Ah, poi voglio sposarmi. Sì, cerco una fidanzata, voglio sposare un'italiana".

 

Ahmed

 

A casa, in Tunisia, Ahmed ha lasciato la madre, un fratello e tre sorelle. "Io sono il più piccolo, ma anche loro erano d'accordo a lasciarmi andare...In Tunisia non c'è speranza per i giovani". Ahmed tira fuori il cellulare, ci fa vedere la foto della mamma, bacia l'immagine e sorride. "Si chiama Sherifa", dice. E la bacia di nuovo, come per suggellare una promessa. E' anche per lei che ha deciso, insieme ad altri 39 ragazzi del suo paese, di comprare una barca e partire. Ventiquattro ore di navigazione fra mille problemi e poi, dieci giorni fa, l'approdo a Lampedusa. A Morello, in questo paesaggio che, sotto il sole primaverile, sembra quasi finto, è arrivato da due giorni. Adesso aspetta, come gli altri, il suo permesso di soggiorno temporaneo. A tutti hanno fatto firmare la richiesta di asilo politico. Mostrano il foglio, con la fotografia, i loro dati anagrafici, la firma. Senza nessuna reticenza. Sanno che la strada per la libertà passa da questo pezzo di carta. E che questo foglio è solo il primo passo per averne un altro, quel "papier" che consentirà di restare o partire per un'altra destinazione e, soprattutto, di cercarsi un lavoro. "Se non lo trovo come cameriere, non importa. Mi va bene qualunque cosa. L'importante è avere un lavoro. Poter guadagnare. Speriamo di trovarlo. Inshallah".

 

Kahled

 

Travailler, ovvero il traguardo, il sogno, l'unico che davvero hanno in comune questi ragazzi che vengono da città diverse, esperienze diverse ma con la stessa identica sensazione di non avere scampo, di essere, nel proprio paese, una generazione bruciata. L'ennesima. "In Tunisia – raccontano - chi sta al governo ci resta per venti, trenta, quarant'anni. Prima Bourghiba, poi Ben Alì, passano le generazioni, la gente cresce, invecchia, ma per chi è giovane la situazione resta la stessa". L'immagine non potrebbe essere più chiara, a dispetto delle parole che escono con difficoltà: le generazioni tagliate fuori da qualunque possibilità di benessere si accumulano, una sull'altra. E se i nipoti non lavorano, non va troppo meglio nemmeno ai padri e ai nonni. Fa un po' paura questa immagine di un paese senza speranza. Ti viene da pensare al nostro. E cerchi di spiegare con il tuo francese maldestro che, qui in Italia, di giovani non ce ne sono così tanti come da loro. L'Italia è un paese vecchio. Sì, un paese dove ci sono tanti vecchi. Ma anche qui, per i più giovani, trovare lavoro non è tanto facile. Non lo è affatto. Ma quasi ti vergogni a dirglielo, perchè sai benissimo di smontare un mito, la certezza per il momento incrollabile, che varcare una frontiera assicuri un futuro migliore.

 

Kahled è saldatore e lascia alle spalle un lavoro precario, ora tramontato per sempre per colpa della guerra, in un'impresa italiana in Libia. Così Kahled ha venduto il suo scooter per meno di mille euro e si è rassegnato, a malincuore, a partire. A malincuore, perchè ha due genitori anziani e 7 fratelli e nemmeno loro lavorano. Il più piccolo no, lui va ancora a scuola, al lycée e si capisce che su di lui la famiglia ripone qualche speranza di riuscire, un giorno, a cambiare la propria storia. Anche per lui Khaled ha sopportato, senza rimpianti, i tre giorni alla deriva su una barca da pesca con 55 persone a bordo. "Si è rotto il GPS, non sapevamo più dove andare, ci abbiamo messo tre giorni anche se la terra era vicino a noi". Adesso è qui e indietro non si torna. Ha avuto tanto freddo e anche oggi, al sicuro e al caldo, tiene il berretto in testa e il giubbotto allacciato fino al mento. Kahled ha 32 anni e ne dimostra dieci di più. In questa comunità improvvisata è il veterano. Guarda la chiesa illuminata dalla luce del tramonto e racconta che di fronte alla sua casa, a Gabes, c'era una chiesa "una chiesa cristiana, proprio come questa". Tira fuori questo ricordo ma poi, in fretta, lo rimette dentro. Sa, come tutti, che la nostalgia della famiglia, degli amici, dei luoghi lasciati alle spalle si farà sentire. Ma non c'è posto per la nostalgia per chi, come lui e gli altri, deve ricostruire da capo la propria vita.

 

Hichem

 

Ci racconta la sua traversata. Anzi la racconta agli altri che, tutti insieme, la traducono dall'arabo in francese. Soppesando le parole, commentando gli aggettivi, scegliendo le immagini in un racconto che d'improvviso è diventato a più mani. Ci dice di quando il motore del barcone si è rotto e di come uno di loro, un meccanico, sia riuscito a ripararlo e a farlo ripartire. Dell'arrivo a Lampedusa e dell'inferno trovato sull'isola. "Si dormiva in spiaggia, senza nulla, al freddo, senza bagni, senz'acqua. Abbiamo visto la Tv, ma no, non diceva la verità. La verità era molto, molto peggio". L'imperativo, anche per Hichem è uno: restare, trovare un'occupazione, stabilizzarsi e, se possibile, farsi una famiglia. "In Tunisia nemmeno quello è possibile - dice Hichem - io non ho studiato ma conosco dottori, professori di scuola che non riescono nemmeno loro ad andare avanti". Ora che Lampedusa è lontana qui, in mezzo a una campagna toscana che più tipica non si può, si smaltisce la tensione, dormendo, finalmente, in un letto vero. Qui può fumare (solo all'esterno però), si può giocare a calcio e parlare con gli operatori e i forestali che hanno il compito di vigilare sul centro.

 

Daniele, Alessio e gli altri

 

"Domani gli facciamo fare il cous cous". C'è un cuoco fra i migranti ospiti della piccola comunità di Morello e gli operatori della Caritas che gestiscono il centro lo hanno già messo al lavoro. Con la tranquillità di chi passa una vita con gli ultimi, sotto le foto che ritraggono un Don Milani - che qui vicino è stato parroco - sorridente con i suoi allievi, Daniele e Alessio raccontano l'organizzazione domestica, ci fanno vedere le stanze, le cucine, le docce. "Certo se si pensa a quello che hanno passato dopo l'arrivo, qui è tutta un'altra storia". Ma è normale, fanno capire, perchè in un paese normale sono normali il rispetto, l'accoglienza, la solidarietà. E' normale mettersi a tavola insieme e tenere puliti i bagni. Trovare un pallone e qualche sigaretta per far passare il tempo, aiutare chi non sa ne scrivere ne leggere a capire e ad orientarsi. "All'inizio erano un po' chiusi, ma poi, piano piano si sciolgono", dice Daniele.

 

La clef disparue

 

Alle otto è ora di cena per loro e di rientrare per noi. Al momento di salire in macchina io e la collega ci accorgiamo di aver perso la chiave. E fu così che un intero centro di accoglienza, migranti e operatori, cominciarono a cercare con il naso nell'erba, spostando tavoli e panche la malefica "clef de la voiture". Che ovviamente si ritrova in fondo a una borsa, con sollievo di tutti e soprattutto nostro. Una banalità, che però ha allentato le tensioni e fatto ridere un po' tutti.