Pubblichiamo l'intervista di Andrea Carugati ad Enrico Rossi uscita oggi sull'Unità
Ieri mattina il premier Renzi ha incontrato prima i governatori, poi i sindaci guidati da Piero Fassino per discutere della riforma dei Senato e del Titolo V. Clima «positivo», i presidenti di Regione hanno presentato un documento che chiede alcune modifiche ma l'obiettivo di arrivare a un testo condiviso entro marzo è condiviso. Sulla spending review la richiesta dei governatori è che «i risparmi ottenuti nella Sanità vengano reinvestiti nello stesso settore».
«Finalmente si chiude una fase, quella di un federalismo assai poco fondato e molto strumentalizzato, che ha provocato danni all'Italia e generato scandali nella classe politica», spiega Enrico Rossi, presidente della Toscana. «Si chiude l'epoca delle Regioni intese come staterelli, una concezione dell'autonomia spinta al punto da aprire sedi estere o immaginare una storia veneta da insegnare nelle scuole. Tutto questo è stato spazzato via dalla crisi e dalla globalizzazione, così come l'idea di uno Stato minimo che non interviene nell'economia, nelle politiche industriali e nella mobilità, e che ha trasferito la crisi fiscale in periferia».
La sua è una bocciatura senza appello. Eppure nel 2001 la riforma del Titolo V la votò il centrosinistra...
«Il centrosinistra dell'epoca è stato subalterno a un'ideologia leghista che sembrava trionfante. Era una fuga in avanti, ora bisogna tornare al regionalismo immaginato dai padri costituenti».
Detto da un presidente di Regione fa un certo effetto. Non c'è il rischio di tornare indietro, al centralismo del passato?
«Il rischio di un pendolo che passa da un estremo all'altro c'è e va evitato. Sarebbe un grave errore. Ora c'è l'occasione per arrivare a un regionalismo forte, a partire dalla creazione di un Senato delle autonomie composto da rappresentanti di Regioni e Comuni al 50%. II compito di questa camera è portare nel cuore dello Stato i territori. Questo Senato non dovrà legiferare, fatta eccezione per le norme costituzionali, ma esprimere pareri in tempi rapidi su ciò che decide la Camera. La proposta dei presidenti di Regione, a differenza della bozza del governo, è che le Regioni abbiano un numero di rappresentanti proporzionale al numero di abitanti».
Che cosa cambierà rispetto alla situazione attuale?
«Serve innanzitutto una migliore definizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Faccio due esempi. Nella bozza del governo la Sanità è esclusivamente regionale, mentre l'urbanistica torna allo Stato. Io credo che siano due errori: l'urbanistica è di competenza delle Regioni dal 1972 e dovrebbe restare tale. Mentre sulla Sanità serve un ruolo dello Stato perché il Servizio sanitario è nazionale. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra il principio di supremazia dello Stato uno dei punti chiave di questa riforma - e quello di sussidiarietà che va tutelata. Si è aperta una discussione con il governo, nei prossimi giorni dobbiamo chiudere in fretta e bene».
Quali sono i poteri che torneranno allo Stato?
«Politiche industriali, grandi infrastrutture. Sul turismo non si può evitare una promozione nazionale del Paese. Non possiamo pensare di andare in Cina a promuovere le singole Regioni. Francia e Spagna su questo hanno politiche nazionali».
Cosa salva di questi ultimi anni di federalismo?
«Credo che, nonostante tutto, la gestione regionale della Sanità sia stata positiva. Se non avessimo governato bene il Servizio sanitario nazionale non si sarebbe salvato. E invece oggi è tra i migliori d'Europa e con una spesa complessivamente sotto controllo. Poi è andato bene il comparto dell'agricoltura, mentre sulla mobilità purtroppo scontiamo dei problemi molto seri, a partire dalle ferrovie. Poi c'è il capitolo dei fondi comunitari, dove alcune Regioni han no fatto molto bene e altre devono ancora imparare».
Pare incredibile che abbiate firmato un documento su questi temi insieme ai presidenti leghisti di Lombardia e Veneto.
«È una domanda da rivolgere a loro. Credo che uno dei motivi del sostegno a questa riforma è che per la prima volta nasce un Senato delle autonomie che dà un senso al regionalismo».
I "senatori" eletti dalle Regioni saranno consiglieri regionali in carica?
«Consiglieri regionali, che non smetteranno di svolgere la loro funzione. Il nuovo Senato non richiederà un impegno full time, i senatori non riceveranno alcuna indennità aggiuntiva».
Lo stipendio del consigliere regionale sarà parificato a quello del sindaco del Comune capoluogo.
«Va benissimo. In alcune regioni come la mia gli stipendi sono già molto vicini a questo obiettivo».
Con questa riforma pensate di uscire dal clima di sfiducia dovuto agli scandali dei rimborsi regionali?
«Credo che possa aiutarci a uscire dalle secche. Ci sono stati comportamenti che sono espressione di un insopportabile degrado della classe dirigente, ma anche eccessi nella gogna mediatica».
In cosa la vostra proposta sul Senato si differenzia da quella dei governo?
«Noi vorremmo che, come nel Bundesrat tedesco, ci fosse un vincolo territoriale. In Germania si vota in base all'appartenenza territoriale, sì o no per tutti i rappresentanti di ciascun Land. Per me è opportuno che il Capo dello Stato nomini nel Senato 21 alte personalità, ma su questo altri presidenti non sono d'accordo».
Dunque non sarete più governatori?
«A me non è mai piaciuto questo appellativo, si è perso il senso delle parole. Chiamateci presidenti».