Diritti
6 aprile 2011
17:10

Montopoli (Pi): la voglia di vivere di Aymen, Amari e gli altri

MONTOPOLI (Pi) Sono tutti giovani, alcuni giovanissimi. Hanno tra i 21 ed i 31 anni. Quando arrivo nell'ex asilo infantile di Montopoli, una struttura di propriet della diocesi di San Miniato dismessa da anni ed oggi utilizzata in parte dalla Caritas, stanno improvvisando una partita di calcio nel bel giardino assolato che un tempo accoglieva i bambini. E sembrano felici come bambini. Una felicit che dura poco, perch l'arrivo delle nostre auto e la presenza di facce nuove, portano subito ombre di pensieri sui loro volti. Si avvicinano, poi si allontanano un po', ci tengono d'occhio. Scoprir poi che quello che pi di tutto attendono l'arrivo dell'agognato permesso di soggiorno, la "ricevuta", come la chiamano loro. Quello che invece temono che arrivi l'ordine di un nuovo trasferimento o, peggio ancora, di un rimpatrio.

La struttura che accoglie 22 dei 500 immigrati in fuga dalla Tunisia destinati alla Regione Toscana diversa da come me l'aspettavo, diversa dall'idea che accompagna il concetto di 'centri d'accoglienza'. E' un luogo di accoglienza vero. E' spartana, improvvisata, ma pulita e luminosa. La prima cosa in cui mi imbatto, salite le rampe di scale che conducono al secondo piano dove si trovano le stanze destinate ai ragazzi, una macchina da caff espresso poggiata su un ampio tavolo. Nella stanza successiva, due tavolini con tante sedie colorate disposte intorno. Fa molto scuola. Di fianco ai tavoli un grande dispenser di latte, tazze colorate di plastica, biscotti Oro Saiwa e pizze avanzate nei piatti di plastica.

Parlo con Franco Ceccatelli, che fa il volontario di Protezione civile alla Pubblica assistenza di Montopoli da 28 anni e che accorso in aiuto dei terremotati del Cardoso, dell'Umbria e dell'Abruzzo. "Una cosa cos non mi era mai capitata dice E' la prima volta che accolgo dei ragazzi immigrati e devo dire che mi hanno meravigliato: sono educati, socievoli, non vogliono che si facciano le cose per loro. Appena ci vedono prendere una scopa in mano, corrono a prenderla e ci pensano loro. Fanno tutto da soli, apparecchiano e sparecchiano, puliscono, provano a imparare l'italiano e vogliono sapere tutto...anche se abbiamo tanta difficolt con la lingua".

Insieme a Ceccatelli ci sono due volontarie della Misericordia di San Miniato. I volontari si sono auto-organizzati in 4 fasce di turni: dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 20, dalle 20 alle 24, dalle 24 alle 6 del mattino. Le associazioni che si danno il cambio sono la Pubblica assistenza di Montopoli, le Misericordie di San Miniato e San Miniato Basso, la Croce Rossa di Castelfranco di Sotto. C' poi la Caritas, che si occupa della distribuzione del cibo fornito dalla mensa delle scuole medie comunali. Non ci sono mai meno di due volontari nella struttura, le loro brande sono ai piedi delle scale. Nelle sei stanze in cui dormono i ragazzi ci sono veri e propri letti, sono ex aule che risultano un po' strette per la loro funzione attuale, ma ciascuna ha un lavandino e al piano ci sono due bagni funzionanti e attrezzati. "Per ora abbiamo provveduto al minimo indispensabile spiega Ceccatelli ora ci stiamo organizzando meglio: ho portato un pallone, poi da stasera avremo un forno a microonde, attaccheremo la tv e forse verr anche l'elettricista per mettere la parabola e dar loro modo di veder cosa succede nel loro Paese. Hanno voglia di sapere".

Ho un po' di pudore ad avvicinarmi ai ragazzi e iniziare a parlare. Temo che siano infastiditi dalla mia presenza. Temo di non saper 'legare' con loro. Cado anche io nel tranello della diffidenza: sentiamo da settimane parlare degli 'immigrati' di Lampedusa come di soggetti alieni, quasi ineffabili, indefiniti. Cado nel pregiudizio che vuole i musulmani restii alle foto e diffidenti verso l'emancipazione delle donne occidentali. Chiedo a Ceccatelli di presentarmi e, con le mie scarne reminescenze di francese, mi ritrovo d'improvviso promossa a traduttore ufficiale della struttura. Il mediatore culturale c' stato il giorno prima, tornato la mattina e torner la sera, ma la voglia di comunicare di 22 giovani che hanno attraversato il mare e ora sono sospesi in una terra che non conoscono, ma vogliono scoprire, tanta.

Aymen e Amari

I primi ragazzi con cui parlo sono Aymen Jlassi e Amari Helmi. Sono nati tutti e due nel 1985, a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro. Vengono dallo stesso paese della Tunisia, Kairouan, sono amici da tanto tempo ed hanno viaggiato sullo stesso barcone. Sono sorridenti, curiosi, educati e subito disponibili a parlare ed a lasciarsi fotografare. Vestono in jeans, camicia, berretto da baseball. Aymen in Tunisia faceva l'idraulico, dice che come lavoro non era male, ma purtroppo era stagionale, totalmente legato ai flussi turistici. Dunque si lavorava in estate per far trovare tutto a posto ai vacanzieri, ma nel resto dell'anno il lavoro languiva. Amari era studente, laureando in economia gestionale, un ramo che si occupa di contabilit bancaria. "Siamo troppi ad essere laureati, non c' lavoro per tutti dice- io avrei voluto alzarmi ed andare al lavoro e invece la mattina non avevo niente da fare". E mentre dice cos si percepisce la frustrazione nella sua voce: come molti giovani italiani passato dalla condizione di brillante studente a quella di disoccupato e peso sociale.

Ma nel suo caso la storia continuata con la decisione di sfidare il destino, pagare 1.500 per salire su un barcone con il suo amico Ayman e altre 61 persone e cercare in Italia l'opportunit di dimostrare ci che vale. Il loro viaggio durato 15 ore (o almeno cos ha detto loro il "capitano della nave") ed a bordo non hanno mangiato quasi nulla. Amari e Aymen sono giovani e non hanno mogli o figli ad attenderli in patria, ma hanno famiglie numerose: Aymen il quarto di cinque fratelli ( il primo maschio dopo tre sorelle', precisa), mentre Amari ha una sorella e due fratelli, ma non ha pi il padre. Sentono l'apprensione dei loro cari, il cellulare di Aymen squilla spesso anche mentre parliamo. "Da casa mi chiamano tutti i giorni dice vogliono sapere come va, come sto. Hanno paura". Il telefonino squilla ancora, ma questa volta la telefonata arriva da Modena, uno zio che vive e lavora in Italia gi da tempo, che ha gi inviato per posta dei soldi al nipote e che insiste per capire dove e se pu venire a prenderlo facendo da garante per lui. Mi riempiono di domande su come funziona il permesso di soggiorno, su quanto tempo occorrer per averlo, su cosa potranno fare e cosa no quando lo avranno. "Dovrete aspettare ancora un po'- spiega Ceccatelli la polizia ha detto che servir qualche giorno". "Anche un anno dice Amari l'importante che poi non debba aver paura quando vado a cercare lavoro".

Ma cosa volete dall'Italia? Perch avete scelto questo Paese? Cosa vi aspettate in un momento che critico per tutti e in una terra cos densa di contraddizioni? "L'Italia un grande Paese, con un grande spirito dice Amari io voglio un lavoro, amici, magari una moglie. Voglio molte cose e vorrei restare in Italia perch amo l'Italia. W Milan!". Sapevate dell'ostilit che avreste incontrato? "Si si infervora Amari ma non sono arrabbiati con me , perch non mi conoscono. Io posso garantire di me e di quello che faccio io. Perch hanno paura di me?". Il mio scarso francese non adatto per spiegare la paura del diverso, annaspo qualcosa, lui capisce e la sua risposta colpisce dritta il bersaglio: "Io non ti conosco, ma sei venuta qui a farmi delle domande, io rispondo e cos ci conosciamo. Non ho detto che non ti volevo parlare. Ora che ti parlo e ti guardo in faccia io credo alle cose che mi dici e mi fido. Ora ci conosciamo e chi mi conoscer sapr che non deve aver paura di me".

Mentre io, Amari e Aymen parliamo, si riunisce intorno a noi un gruppetto di ragazzi. Forse la curiosit , forse il suono della loro lingua, forse anche solo la situazione di ritrovarsi seduti in cerchio, senza formalismi e barriere, stranieri ma non estranei. E' frustrante? "Si dice Amari il tempo non passa e anche giocare a pallone ci serve per sfogare la rabbia di stare senza sapere cosa sar di noi. Ora per va meglio. E' stato terribile a Lampedusa, l non c'era cibo, non c'erano medicine. Non sapevamo niente. L c'era tanta rabbia. L mi sono sentito male".

Ragheb e gli altri

Ragheb Rejeb un ragazzino. E' nato a Gafsa nel settembre del 1990, tra i pi giovani del gruppo. Si seduto anche lui e ascolta. Quando mi blocco su qualche parola che non ricordo o non conosco interviene, prima timidamente, poi sempre pi disinvolto. E cos scopro che l'unico che parla inglese. Very little english', precisa, ma sempre meglio di niente. Ragheb arrivato a Lampedusa con altri 70 migranti dopo 3 giorni e mezzo di navigazione. "E' stata lunga, ma la nostra era una barca non buona". La traversata gli comunque costata 1.500 euro, prezzo fisso per tutti e 22 i migranti ospitati a Montopoli. A bordo si era portato acqua e panini, ma quando arrivato a Lampedusa era comunque allo stremo. Forse per le dure condizioni del viaggio, forse per altri motivi, a Lampedusa stato male anche fisicamente. Dice che il cibo che stato distribuito "non era buono", che era avariato. Anche Amari annuisce. "Non era buono, dopo mangiato mi sono sentito male. E non c'erano medicine".

Adesso sta bene, dice che gli sono piaciuti i "maccaroni colorati" che gli sono stati serviti come primo pasto dalla Caritas di Montopoli. E anche la pizza che hanno mangiato ieri. Indossa un pesante giaccone imbottito. Gli chiedo perch , dato che una splendida giornata di sole e la temperatura molto piacevole. "Lo indosso sempre, non lo tolgo mai". Getta gli occhi da un'altra parte e non d altre spiegazioni. Sembra che la sua mente corra altrove, forse al padre, alle due sorelle e ai cinque fratelli che ha lasciato a casa. In quel momento ha la stessa espressione di un altro ragazzo, del quale non so il nome perch durante tutto il tempo della visita rimasto seduto in disparte, in un angolo in ombra, a fissare un telefono cellulare che, a differenza di quello di Aymen, non ha mai squillato. Ragheb non ha il telefonino, "ma ho una scheda tunisina e appena posso la metto nel telefono degli altri e chiamo casa". In Tunisia faceva il meccanico e dice che era bravo, soprattutto con le automobili e le navi. Gli dico che da noi chi ripara le macchine non ripara anche le navi, lui ride e dice che bravo nel suo lavoro, ma che in Tunisia nessun lavoro buono perch gli stipendi non sono buoni. Per questo venuto in Italia, perch anche qui ci sono macchine e navi e perch sa di essere bravo a ripararle. "In Italia il lavoro c' ", dice.

L'Italia resta un mistero, un'entit quasi astratta, mitica. Sono in Italia ma non sanno dove. Mi rendo conto dello smarrimento in cui si trovano quando uno di loro si avvicina con una pagina di quotidiano accuratamente ripiegata e mi mostra una cartina del meteo non pi grande di dieci cm per quattro o cinque. Su quella immagine stilizzata e piena di simboli del sole hanno appuntato le loro speranze. Mi chiedono di indicare dove Livorno (nella mappa segnalata Pisa, ma non la citt dove sono sbarcati in Toscana), dove Montopoli. Poi chiedono di sapere dove Modena, dove Milano. Usando come parametri il tempo occorso per arrivare da Livorno a Montopoli e le apparenti distanze della cartina provano a immaginare quando tempo servirebbe per raggiungere quelle citt . La loro esperienza dell'Italia per ora limitata a Lampedusa, con le sue dure condizioni di vita e lo smarrimento generale, e all'asilo di Montopoli, dove hanno trovato letti, cibo, un giardino soleggiato e dove hanno anche la possibilit di andare a piedi in paese, "Ma non la sera spiegano perch ci sono delle persone che non ci vogliono".

Mentre sono con loro Ceccatelli mi riferisce la notizia di una tragedia del mare. Una barca carica di profughi in viaggio verso le coste italiane si inabissata. Tante volte ho sentito notizie come questa, ma per la prima volta immagino volti, sorrisi, storie, persone in quel barcone. Immagino Ragheb e il suo misterioso giaccone, immagino Aymen con gli occhi grandi sotto la visiera bianca del suo berretto, immagino Amari e la sua verve oratoria, la sua voglia di raccontare e di conoscere nonostante sappia e veda che del suo fiume di parole solo poche arrivano a destinazione. E il mio non un cordoglio formale, la notizia mi colpisce davvero come un pugno nello stomaco. Ma colpisce di pi loro. Appena traduco quello che Ceccatelli ha detto tutti si animano, se lo fanno ripetere. Chiedono quante persone c'erano a bordo, chiedono se si sono salvati. Chiedono dettagli che nessuno di noi sa. Poi le domande lasciano spazio al silenzio. Poi Amari di nuovo parla, di nuovo vuol sapere quando arriver quell'atteso permesso di soggiorno. Ceccatelli mi aveva anche avvisato dell'arrivo, nel frattempo, del sindaco di Montopoli, Alessandra Vivaldi. Dico che andr a informarmi dal sindaco su eventuali novit , ma appena la Vivaldi si avvicina Amari a scattare in piedi: "Mamma!".

Arriva il sindaco

La chiamano "mamma", giocando sulla fonetica e sul fatto che in francese le parole "sindaco", "madre" e "mare" hanno suoni molto simili, quasi identici. E si vede che, nonostante un certo imbarazzo e malgrado la voglia di dissimulare i propri sentimenti, questo la emoziona. Alessandra Vivaldi, sindaco del Comune di Montopoli, ha saputo all'improvviso che il suo Comune avrebbe dovuto accogliere 22 migranti, ma non si tirata indietro. Di poche parole, concreta di una concretezza tutta femminile, la Vivaldi non ignora le difficolt , ma troppo impegnata a risolverle per preoccuparsene. Non ignora le tensioni sociali, ma conosce bene i suoi cittadini e le dinamiche di paese.

"C' stato chi ha protestato dice ma sono stati in pochi, le solite persone a cui non va bene niente. Ma la maggior parte dei cittadini anche se all'inizio stata diffidente, ora ha capito che questi ragazzi non sono un pericolo. C' chi venuto a curiosare, e poi tornato portando la pizza o il dolce. La sera si creato una sorta di circoletto e so che per domenica c' chi sta organizzando una partita di calcio e un pranzo all'aperto".

Il sindaco ascolta le necessit , sbuffa ma porta pazienza davanti all'eccessiva insistenza di Aymen che chiede di continuo dello zio di Modena e di quando e come potr andare via con lui. Cerca soluzioni mediate tra la volont di aiutare e le possibilit concrete. Offre il suo ufficio come punto di riferimento per la corrispondenza con l'onnipresente zio, si informa sui turni dei volontari, verifica con Ceccatelli che sia stata fatta la spesa, tiene i contatti con i rappresentanti delle associazioni che si avvicendano.

Alla fine chiedo una foto di gruppo. C' chi dorme e chi continua a fissare il suo cellulare muto (ora, dopo la notizia della nave affondata, quel silenzio mette i brividi), ma un gruppetto si raduna e posa "like a football team" per la foto con il sindaco. Prima di salutarci mi danno le loro e-mail. Vogliono le foto. Qualcuno mi chiede di mandargliele tramite Facebook. Sono ventenni del XXI secolo. Non hanno un computer a disposizione, ma i loro familiari potranno vederle, potranno avere scatti da un'altra vita, potranno sapere che sono vivi, che sorridono e che hanno docce, letti e un giardino. "Li ho visti cambiare nel giro di due ore racconta il sindaco Vivaldi sono arrivati con gli sguardi bassi, diffidenti, impauriti. Ma bastato cos poco, sono bastati un posto asciutto dove dormire, dei letti, la possibilit di farsi un bagno e di mangiare qualcosa di caldo e subito si sono animati, hanno iniziato a voler dare una mano. Hanno voglia di comunicare e socializzare. Hanno voglia di vivere".