Diritti
8 aprile 2011
13:55

Madonnina del Grappa (Fi), l'integrazione si gioca su un campo di calcio(balilla)

FIRENZE "In carcere noi pi vecchi tenevamo sempre in un cassetto uno spazzolino e una maglietta pulita. Erano pronti per i nuovi che arrivavano. Una regola l dentro". La regola funziona anche ora che sono fuori. Biagio, Michele, Giuseppe, Mirco, Francesco, ex 41 bis, carcere di massima sicurezza, pene detentive durate 27 anni di seguito senza l'ombra di un permesso, stavolta hanno messo a disposizione pi di uno spazzolino. Hanno lavorato ventiquattr'ore di seguito. Hanno preparato le camere, i vestiti e da mangiare a Dardouri, a Rami, a Ramidi e agli altri dodici che da Lampedusa sono piombati senza molto preavviso nel cuore della notte nella casa accoglienza della Madonnina del Grappa, in via di Caciolle, a Firenze. Sono riusciti a sistemare i quindici ragazzi tunisini nella palazzina che prima era una scuola materna. La fece costruire don Facibeni in persona e le mise nome "La nave", ironia della sorte. "Ora la chiamerei il porto, no?" sorride Michele, una bella faccia da Peppone, fine pena raggiunta da due anni. E' un'istituzione, Michele, nel gruppetto di volontari messo su da don Vincenzo Russo nella grande costruzione gialla infilata nella tasca dell'ultimo lembo di una Novoli che non diresti. Ed diventato gi un punto di riferimento per i nuovi arrivati. Lo "zio" lo chiamano, una delle pochissime parole italiane che conoscono. L'altra "grazie". C'era lui l , con le pentole di pasta calda appena fatta, le mozzarelle e il pane, la notte che i "ragazzi" hanno varcato il cancello della casa.

 

 

Biagio era andato a comprare stecche di sigarette per tutti. Giuseppe stava ancora smistando i vestiti puliti. Gli altri si riposavano un po', dopo la corsa forsennata perch fosse tutto pronto per tempo. Dardouri, 22 anni, due occhi che non stanno fermi un istante, guarda Michele come fosse davvero suo zio. Arriva dalle periferie rurali di Tunisi, uno dei pochi studenti del gruppo. Frequentava una scuola per manutenzione di macchine industriali: si capisce da come descrive il guasto al barcone su cui era stipato insieme a un altro centinaio di ragazzi - non si sa come - e dove ha visto la morte in faccia. "Quando la pompa ha cominciato a sbuffare - racconta - e a incamerare acqua, acqua, acqua, e noi non potevamo fare altro che aggrapparci un po' l'uno all'altro, un po' ai bordi della barca per non cadere in mare ecco, giuro, l ho avuto paura davvero. Molta di pi di quando, giorni prima, ho visto i miei vicini di casa trucidati da tre cecchini in una sparatoria".

 

C' sempre un inferno peggiore. "Stavamo per affondare sul serio" rinforza Rami, che di anni ne ha 20. E' amico di Dardouri, abitavano nella stressa zona ed erano tutti e due su quella bagnarola. Sono scappati insieme dalla citt in fiamme. Una sera, a mezzanotte, senza dire niente a nessuno, si sono imbarcati e via. Le famiglie le hanno avvertite dopo, quando erano gi a Lampedusa. "Abbiamo fatto cos un po' tutti- racconta Rami Non c'era tempo, bisognava prendere al volo l'occasione che ci capitava". E di occasioni nelle campagne di Tunisi non ne passano molte. Ultimo di cinque fratelli, Rami faceva il pizzaiolo a periodi e cos aiutava la famiglia. Mani forti, sguardo fiero, si rimetterebbe a impastar pizze anche subito, se qualcuno lo volesse.

 

"Spero di poter sfruttare qui quello che ho imparato l tiene a aggiungere allora Dardouri ma comunque mi basta lavorare". Lavorare in Italia, gi . Restare. "Ci penso da quando ero piccolo all'Italia - prosegue Dardouri - mi piace tutto qua. La gente, i posti. Non siete come i francesi voi. E poi c' il calcio: Milan al ".

Al Milan vale anche per Ramidi, che al richiamo si avvicina. Di partite in tv anche lui non se n' mai persa una l nelle periferie tunisine, e ogni volta era come rendere pi concreto il sogno. Adesso che ce l'ha fatta e l'Italia non passa pi solo dalla parabola, Ramidi, 37 anni, non vuol mollare. "Ero impiegato in una ditta che faceva plastica, ma m'intendo anche di riciclaggio di materie plastiche. Insomma, quella tutta roba che conosco bene".

 

Speranze. Tante. Forse troppe, teme qualcuno, come Lucia Palazzo, la responsabile dell'intero settore servizi sociali per l'Opera della Madonnina e esperta nell'accoglienza di profughi e immigrati. Quando entra in azione lei, giovane ma con la grinta di un'esperta consumata, l'ingranaggio gira, risaputo. Questione di esperienza, appunto, di sensibilit , di determinazione, di capacit di rapporti. "Intanto li abbiamo fatti visitare - spiega - E somministrato antibiotici a causa delle influenze che qualcuno si beccato durante la traversata. Nella sostanza per stanno tutti bene. Altro scoglio, il permesso di soggiorno. Ma grazie alla disponibilit della Questura siamo gi riusciti a ottenerne uno da sei mesi".

 

Dal fondo del giardino c' chi esulta. Si sta svolgendo una partita di calciobalilla, Tunisia - Italia. Da una parte tre ragazzi che gridano in arabo, dall'altra due agenti della Polizia che gridano in italiano. Gli stessi agenti che la sera prima hanno portato pizze per tutti. "Alla fine c' sempre qualcuno che si fruga in tasca" dice Giuseppe riconoscendo il sistema contagioso che l loro sono capaci di innescare. Una corrente dalla quale neppure i beneficiati di turno restano immuni. Dalla mattina stessa dopo il loro arrivo, tutti i ragazzi si sono offerti di non starsene con le mani in mano. Ci ha pensato Michele allora a accontentarli subito: un rastrello per uno e via, tutti a ripulire il giardino. Che piace un sacco. Quando ci si sono trovati per la prima volta in quel giardino, tra i giaggioli, gli ulivi e il ramerino, alle tre di notte, stravolti, sporchi, sotto choc, la parola che gli uscita spontanea dalla pancia stata "hawa", "aria".

 

Un'aria che non si aspettavano. Che li fa star bene. E don Vincenzo, inventore di quella casa e sacerdote a Sollicciano, ci sta gi pensando a far s che quell'aria diventi feconda di progetti e voglia di fare. E tanto per cominciare in testa ha gi un torneo di calcio magari con gli amministratori locali, o con gli operatori sociali. "Qualche iniziativa che aiuti l'inserimento - propone-. Una volta fatto fronte ai bisogni primari, fondamentale che questi giovani si sentano parte di un organismo e che vengano riconosciuti come individui, persone libere di pensare e di scegliere". Il meccanismo sempre lo stesso, quello degli educatori.

"Vede - spiega - io i detenuti me li scelgo. Solo dopo un percorso lungo, di crescita, di ricerca e di amicizia gli chiedo di venire a stare qui con me. Hanno un punto di riferimento e, se vogliono, possono decidere di mettersi in gioco quando c' bisogno". E succede sempre.

 

La prima esperienza di accoglienza la fecero con i somali, l'anno scorso. E visto come andata, il Comune di Firenze ai ragazzi di don Vincenzo ha chiesto di replicarla con i tunisini.

"Non capisco cosa ci troviate di eccezionale" taglia corto Paolo, parole 'effetto ruvido' da genovese. Lui in semilibert perch il carcere non potr lasciarlo mai. Il giorno lavora in una cooperativa di ragazzi disabili, la sera la passa con gli amici della casa dell'Opera, per lo pi cura il giardino. Poi alle dieci rientra. "Ci viene naturale fare cos con chi ha bisogno - continua- Forse perch in fondo ci riteniamo fortunati. Un po' come questi ragazzi che sono arrivati sani e salvi fino a qui e hanno trovato qualcuno che gli ha teso una mano". La sintesi la fa Biagio, quello che quando da Poggio Reale fin a Sollicciano, gli piacquero tanto le finestre oblique al posto delle sbarre che disse "U , acca' teng' pur' o'bbalcone". "Alla fine sai com' - si ferma di colpo con una pila di panni di bucato sulle braccia destinati ai nuovi arrivati- La Pira lo disse a don Facibeni proprio durante una visita a questo vecchio asilo: nessuno meglio del povero capisce il povero" .