Figli mariti, fratelli, padri. Destini smarriti degli ottocentomila militari e civili italiani abbandonati a se stessi che alla fine dell’estate del 1943, dopo l’armistizio, si rifiutarono di collaborare con i tedeschi e con la Repubblica di Salò, istituita il 23 settembre dopo la liberazione di Mussolini. Circa seicentocinquantamila furono deportati in Germania per sostenere lo sforzo industriale bellico tedesco. Molti non faranno più ritorno: fra questi circa duemila erano toscani, spesso provenienti da piccoli paesi e dalle zone più povere della Regione. Minatori, pescatori, boscaioli, soldati di fanteria che la leva militare fascista aveva volentieri destinato alla Prima linea che non risparmia.
L’assessorato alla Cultura della memoria della Regione Toscana, assieme a Isabella Insolvibile, ricercatrice presso la Fondazione museo della Shoah di Roma e Matteo Mazzoni, direttore dell'Istituto storico toscano della Resistenza, sceglie di ricordare oggi l’8 settembre 1943 presentando il volume “Una straziante incertezza. Internati militari italiani fra guerra, morte e riconoscimenti da parte della Repubblica” di Gabriele Bassi, Nicola Labanca e Filippo Masina edito per i tipi di Viella.
Con un minuzioso lavoro di studio e ricerca che per la prima volta ha incrociato fonti e dati di ante e dopoguerra usando, fra gli altri, gli archivi militari, i Distretti militari e l’Albo d’Oro dei Caduti e quelli civili relativi alle pensioni di guerra, spesso in contraddizione fra loro, il volume ricostruisce cento storie dei duemila internati toscani restituendo dignità non solo alle dolorose vicende dei deportati in Germania ed ai i loro diversi destini, ma anche ai drammi delle loro famiglie, a lungo private di qualsiasi notizia sulla loro sorte.
E’ la “straziante incertezza” di uomini e di donne che niente sanno dei loro cari e della loro sorte, la loro vita e la loro morte, spesso dovuta ad un trattamento disumano che nega loro anche lo status di prigionieri di guerra. Un’assenza che va anche oltre la loro morte e che la burocrazia e l’indifferenza del welfare italiano post-bellico trascineranno per molti anni dopo la fine della fine del conflitto nel mancato riconoscimento di una pensione di guerra a vedove e figli, spesso in condizioni economiche disagiate, ma anche di un semplice riconoscimento, un’onorificienza, una testimonianza che la persona a loro cara aveva perso la vita per l’Italia.